E’ stata un entusiasmante opportunità quella di partecipare a una conferenza del lodato autore e amico di lunga data, Daniel Pauly, presso il Naturalis Biodiversity Center a Leida, Paesi Bassi, il 2 settembre 2023. Nonostante il fine settimana, la sala conferenze era affollata di ricercatori, manager, rappresentanti della società civili e delle organizzazioni per la protezione della natura, stampa e persone appartenenti a diversi dipartimenti governativi. Un intraprendente esposizione della storia della nostra specie, come invasore di ogni angolo del pianeta, che non ha deluso. Significa che, come specie, ci siamo riusciti per davvero, non è vero? Vediamolo brevemente attraverso, appunto, la nostra storia.

La nostra specie si è separata dagli scimpanzé circa sei milioni di anni fa, ma solo negli ultimi 2-300.000 anni lo sviluppo del linguaggio ha consentito la formazione di gruppi più grandi che cooperano in maniera sempre più efficace nei compiti per sopravvivenza. Il linguaggio permette il pensiero simbolico. Poiché la conquista di spazi ecologici è generalmente regolata dalle relazioni predatore-preda, la nostra specie si è evoluta da preda di grandi predatori a diventare un formidabile predatore essa stessa.

Segni di pensiero simbolico che contraddistinguono l'identità di gruppo sono stati trovati in quello che oggi è il Sud Africa, in conchiglie di abalone con resti di pigmenti di ocra adoperati come decorazione per il corpo, per la creazione di arpioni e altri attrezzi. Non sappiamo ancora se questi siano gli artefatti umani più antichi, poiché recentemente sono state ritrovate ossa probabilmente ancora più antiche in Nord Africa. Ma ciò che archeologi e genetisti possono ricostruire è che gli Homo sapiens moderni si sono mossi fuori dall'Africa alla fine del Pleistocene, circa 70.000 anni fa, probabilmente nella zona dello Yemen, quando il livello del mare era molto più basso di oggi, durante un periodo in cui la penisola arabica era rappresentata da vegetazione.

In circa 10.000 anni, gli H. sapiens hanno raggiunto l'Australia ad est e, tra i 10-20.000 anni, hanno popolato l'Europa ad ovest. Lungo il loro percorso, in un periodo piuttosto breve, hanno eliminato tutti gli animali di grandi dimensioni. Gary Haynes scrive nell'edizione del 2018 dell'Enciclopedia dell'Antropocene, nel suo capitolo intitolato 'Le prove dell'azione umana nelle estinzioni delle megafaune del tardo Pleistocene', pubblicato da Elsevier:

"La tempistica dell'arrivo degli esseri umani su ciascun continente coincide con la scomparsa di molte generi della megafauna. Il tardo Pleistocene ha visto anche cambiamenti causati dal clima nelle comunità vegetali e nei regimi di umidità, che avrebbero influenzato generi della megafauna nella maggior parte delle regioni; tuttavia, gli animali erano sopravvissui a numerosi cambiamenti precedenti e si erano ripresi ogni volta. Solo la presenza degli esseri umani moderni distingue chiaramente i cambiamenti del tardo Pleistocene dalle fluttuazioni climatiche precedenti."

In Nuova Zelanda, ad esempio, in un periodo inferiore ai 200 anni dopo l'arrivo nel XIII secolo dei Polinesiani sull'isola, le nove specie di moa prive di ali si sono estinte.

Facsimile del libro delle fonti principali Erosione - Immagine di Brigitte Werner da Pixabay

Ma cosa spingeva gli H. sapiens a spostarsi così assiduamente? Daniel Pauly, citando David R. Montgomery, ha sottolineato che erano le consecutive crisi nella produzione alimentare dovute all'esaurimento delle terre agricole a spingere i gruppi di umani a dover migrare e trovare nuove terre e fonti di cibo. Questo è stato il caso per tutti i principali cereali che sostenevano grandi popolazioni: il miglio in Africa occidentale, il riso in Cina, il grano in Medio Oriente. Sono stati citati vari meccanismi, come l'acquitrinamento e la salinizzazione delle terre, che le rendevano infertili e incapaci di produrre le quantità necessarie di cibo per sostenere le civiltà in questione. L'erosione causata dal vento e dall'acqua, i continui processi geologici che riducono intere montagne in granuli nel corso di lunghi periodi, continuano a essere un fattore oggi nella desertificazione e nella perdita di terre agricole non adeguatamente curate.

La perdita di produttività agricola e le dispute sulle fonti di cibo definiscono molti conflitti, compresa la guerra civile negli Stati Uniti (1861-65), che riguardava meno l'abolizione della schiavitù e principalmente motivata dal tentativo di estendere l'economia agricola verso nord a causa della perdita di fertilità dei suoli nel sud.

L'ultima grande espansione prima del colonialismo europeo avvenne nelle acque dell'Atlantico settentrionale per pescare più pesce e altri organismi. Poiché la Chiesa cattolica limitava il consumo di carne per lunghi periodi dell'anno, il pesce e molti altri organismi marini, come tartarughe, classificate come pesci, erano molto ambiti. La Lega Anseatica, una confederazione commerciale e difensiva medievale di gilde di mercanti e città mercato dell'Europa centrale e settentrionale fondata nel XII secolo, divenne prominente per la sua influenza nel commercio dell'aringa salata (Clupea harengus) nel Baltico. Nel XIII secolo, il merluzzo essiccato (Gadus morhua) proveniente dalla Norvegia settentrionale divenne importante attraverso le loro basi a Bergen. Nel XIV secolo, in Inghilterra venne inventata la pesca a strascico con barche a vela, uno sviluppo che contribuì ad ampliare la base economica del paese.

A partire dal XV secolo, la pesca del merluzzo con le dories al largo di ciò che oggi è il Canada produceva circa 100.000 tonnellate di merluzzo all'anno. A quel livello, la pesca era durata quasi cinque secoli, ma la massiccia implementazione della pesca industriale con navi in acciaio alimentate a combustibili fossili, specialmente dopo la Seconda Guerra Mondiale, aveva decimato le popolazioni di merluzzo che un tempo erano immensamente ricche. E, come sappiamo, non si sono mai riprese dopo il crollo avvenuto all'inizio degli anni '90.

La rivoluzione industriale ha introdotto l'energia fossile, ottenuta dalla crescita vegetale, decomposta e compressa per milioni di anni, per produrre acciaio e altri materiali in grandi quantità. Negli ultimi decenni del XIX secolo, ciò ha sostenuto le flotte di navi da guerra in modo che Britannia dominasse gli oceani. Dopo la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, navi in acciaio furono impiegate massicciamente nella pesca insieme a tutta la tecnologia militare originariamente sviluppata per avvistare aerei, sonar contro i sottomarini, successivamente la navigazione satellitare e altro.

Tutto questo è stato adoperato per la pesca, che ha portato ad un aumento velocissimo delle quantità di pescato. Oggi, la biomassa ittica intorno al Regno Unito è solo il 5% di quella che era prima della guerra.

E Pauly continua: "Siamo letteralmente passati dalla guerra in generale a una guerra generalizzata contro i pesci. E indovinate un po', abbiamo vinto la Guerra contro i Pesci!".

Nella seconda metà del secolo scorso, già negli anni '70 e '80, per compensare la diminuzione delle risorse intorno all'Europa e all'Atlantico del Nord, le attività di pesca si sono spinte più a sud e hanno iniziato a pescare a profondità maggiori. Le spedizioni di pesca a strascico esplorativo delle navi da ricerca tedesche hanno tirato su enormi quantità di animali che vivono sul fondo, chiamati "catture accidentali", insieme al merluzzo e ad altri pesci bersaglio. Tutte le catture accidentali indesiderate venivano rigettate in mare per evitare di riempire lo spazio di raffreddamento con specie meno pregiate o non commestibili. Questa era una pratica comune sulle navi industriali.

Cosa significa "spingersi più a sud"? Significa fornire aiuti per lo sviluppo, ad esempio all'Indonesia negli anni '70 - e ad altri paesi tropicali - per sviluppare la pesca a strascico. È capitato che in quel periodo Pauly stava lavorando come giovane professionista in una delle crociere di ricerca esplorativa nel Mar di Giava, in Indonesia, in acque precedentemente non affette dalla pesca di fondo nel 1975-76. In quel periodo, poche persone assistevano e documentavano con fotografie di come le reti a strascico tiravano su enormi spugne e tante altre specie che vivono sul fondale, ma relativamente pochi pesci. La maggior parte del pescato in queste acque incontaminate veniva quindi rigettata via come pescato inutile. Pochi gamberi, e ancora meno pesci piatti amati nella cucina olandese ma rare nei tropici, e poche delle decine se non centinaia di specie di pesci presenti in piccole quantità erano addirittura quasi sconosciute. Questa terribile distruzione degli habitat, essenziali per un ecosistema funzionante, è andata avanti rimanendo allo scuro del pubblico.

Come funziona un ecosistema del genere? I biologi parlano di una piramide trofica. Alla base, nell'ambiente marino, ci sono principalmente piccole alghe planctoniche, produttori primari che trasformano la luce solare e i nutrienti presenti nell'acqua, attraverso la fotosintesi, in materia organica. Questa viene consumata al livello successivo da copepodi e altri crostacei, ma anche da larve di pesci e altri organismi appartenenti allo zooplancton. Questi rappresentano il primo livello di consumatori, che a loro volta vengono mangiati da aringhe, spratti e altri piccoli pesci pelagici. A loro volta questi diventano preda di pesci più grandi e così via. Il trasferimento di energia da un livello trofico al successivo è approssimativamente solo del 10%, il 90% è necessario per mantenere le fasi di vita e crescere..

La pesca industriale non solo ha catturato abbondanti quantità di pesci grandi e mammiferi marini, nonché uccelli marini che occupano un alto livello trofico nella catena alimentare, ha catturato sempre di più le prede di questi animali. Ciò non solo ha privato i predatori rimanenti, come si può vedere dal crollo delle popolazioni di uccelli, ma ha impoverito l'intera catena alimentare marina, portando a una maggiore vulnerabilità e malfunzionamento nei loro ecosistemi.

Attualmente, circa il 20% delle catture globali avviene tramite la pesca a strascico, con tutti gli effetti distruttivi sugli habitat che vengono trasformati in macerie con conseguenti elevate emissioni di CO2, che recentemente hanno ricevuto una maggiore attenzione a causa dell'espansione della crisi climatica.

Come parentesi per sviluppare questo quadro globale, Daniel Pauly ha anche menzionato come, grazie a una collaborazione internazionale di centinaia di ricercatori provenienti da tutto il mondo che lui guida nell'ambito dell'iniziativa "Sea Around Us", nominata così in onore dell'omonimo libro di Rachel Carson, abbiano ricostruito le catture nazionali di tutti i paesi dal 1950.

Questo enorme sforzo è essenziale per completare e correggere i dati incompleti che i governi segnalano alla FAO per la compilazione delle statistiche globali.

Tuttavia, spesso questi dati non riportano le catture effettuate dai pescatori artigianali, ricreativi e non cercano nemmeno di stimare la produzione di sussistenza.

Allo stesso modo, non stimano gli scarti in mare (riportano "pescato nominale") e non cercano di stimare le catture illegali. Per una comprensione più realistica, ad esempio per la gestione o gli investimenti, questi set di dati più completi sono indispensabili.

Quindi, dove ci porta tutto questo mentre comprendiamo la magnitudo dell'impatto umano su ogni angolo del pianeta? Sappiamo cosa deve essere fatto, anche se attuare queste misure è difficile:

  • Fermare i sussidi dannosi che alimentano la pesca industriale eccessiva e continua, che altrimenti cesserebbe in gran parte perché non sostenibile.
  • tabilire basse quote di pesca per consentire alle risorse di ristabilirsi e agli ecosistemi di recuperare un funzionamento normale, il che aiuterebbe anche a far fronte meglio ai cambiamenti climatici.

  • Creare grandi aree marine protette che siano davvero protette, non solo parchi su carta..

La grande sfida è: riusciremo a smettere di comportarci come una specie invasiva altamente efficiente ed efficace?

Questo interrogativo finale ha scatenato una breve ma vivace sessione di domande e risposte che ha rafforzato la sfida per affrontare queste verità scomode e pensare a come mettere in pratica le lezioni apprese.

Testo di Cornelia E. Nauen, traduzione italiana di Alessio Di Fino. La registrazione del evento est accessibile qui (in inglese)